L’ultima morte di Peppe Bortone è un libro d’altri tempi. D’altri tempi il personaggio, il contesto, il cinema a cui è dedicato. D’altri tempi anche l’autore: il libro sarebbe potuto essere un’opera giovanile, perché risale addirittura ai ricordi della sua infanzia, ora che finalmente è pubblicato è un’opera matura perché maturata, come il suo autore.
Pulitissimo nella scrittura, definito con precisione maniacale tanto quanto è improbabile nella sua trama esistenziale, bruscamente divertito, il Peppe Bortone di Marco Tiberi è uno sceneggiato di un mondo che non c’è più. In cui si sogna come se i sogni avessero le forme, appunto, di una sceneggiatura (che per Marco è il lavoro di una vita). In cui si vive immaginando, soprattutto, senza riuscire molto a immaginare di vivere. Arrivando al punto di negarselo. Un mondo di comparse e di scomparse, se posso dire così, in cui si muore ripetutamente – e come muore Bortone, sulla scena, nessuno – e diventa ancor più angosciante porsi il problema di quando si muore davvero.
Vita e immaginazione, realtà e fiction si scambiano di posto, ed è in questo set talmente immaginario da essere reale che Tiberi ci vuole condurre, descrivendo un personaggio moribondo o, forse, meglio “vitabondo”, alla ricerca, perduta, di se stesso.
C’è una canzone di Paolo Pietrangeli, Cinema, che potrebbe fare da colonna sonora alla lettura. E non solo per il cowboy che arriva in fretta e l’indiano di vedetta sulla porta. Ma perché davanti a quello schermo bianco, in tutto quel buio, ogni volta, continua la nostra, di ricerca.
Vai, vai, la fantasia… Vai, vai, la prateria…
P.S.: lo trovate sul sito di People. Fino a domenica è in regalo, per scelta dello stesso autore, generoso, maestro e amico.
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