Ho letto un libro che vi consiglio. L’ha scritto per Einaudi. Il titolo è quasi uno slogan. L’autrice, autorevole, è Carla Benedetti.
Muove da Günther Anders per arrivare a conclusioni originali. Una, in particolare, è originalissima, pur nella sua semplicità (anzi, in ragione della sua semplicità).
Benedetti sostiene che la nostra identità primaria e forse unica (sapete quanto diffidi della parola identità) è quella di «terrestri».
Se ci pensate, e assumente il punto di vista, è una considerazione rivoluzionaria.
L’essere terrestri è la nostra identità primaria e più evidente, ma è anche la più rimossa.
Siamo terrestri, appunto. E di questa nostra terrestrità (viene in mente un verso di Rilke) dobbiamo farci carico, anche perché da troppo tempo stiamo facendo esattamente il contrario.
Come potete immaginare, sono molto d’accordo. Eppure, ho come l’impressione – nel leggere l’ennesimo libro sulla questione – che dall’antropocene siamo passati all’età dell’ineluttabile, dell’indifferenza: del cazzocene (frega).
Non mi pare che nonostante i proclami e gli impegni si sia ancora assunto il grado di pericolo e di urgenza della questione. Né che nessuno voglia intestarselo davvero sotto il profilo politico.
Mentre lo scrivo, spero di sbagliarmi e in proposito ho scritto una lunga riflessione per Ossigeno, che spero avrete la pazienza di leggere. Certo è che siamo impalati, pietrificati. E presto fossili. Del resto, chi va con i fossili, prima o poi finisce con il confondersi con loro.
E per il resto, parafrasando Anders, siamo proprio alla politica della discrepanza. Svegliamoci, è tardi. Molto tardi. Dobbiamo essere «acrobati del tempo», e guardarci come se ci stessimo guardando da nonni di noi stessi, tra qualche decennio. Per verificare cosa avremo combinato. E se avremo combinato qualcosa, in questo senso.
[Mi scuserà l’autrice per il titolo poco accademico]
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