La primavera bussa, ma non possiamo aprirle. Se non per rapide sortite fuori di casa. I piccoli si sveglieranno con la DaD. Le notizie arrivano ancora frammentarie. Siamo al 55esimo posto nel mondo per vaccini per abitante. Migliori quelli di oggi, migliori quelli di prima. Anche perché sono gli stessi.
Ora dice che torneranno a scuola, i cuccioli, perché gli studi dicono che il contagio è minimo rispetto a mille altre cose. Bella scoperta.
Non mi ero mai accorto di quanto fossero eterne queste albe, che si allungano a dismisura prima dell’intervento dell’ora legale. Di quanto siano sospese. Di quanta speranza e incertezza portino con sé. Si alternano, i sentimenti, contrastano tra loro. Un po’ tipo la pioggia di marzo ma meno, molto meno gioiosa. E parlo da borghese, immagino quanta ansia ci sia in case più strette, tra precariato e redditi insufficienti. Con la sensazione che nessuno, al di là delle intemerate corporative, si stia davvero occupando del problema, che è un problema di disuguaglianza e presto di mancanza di opportunità – le due cose sono “sorelle”.
Quiete e tempesta, questa volta, si scambieranno di posto. E quest’alba appesa aprirà – chissà quando – a momenti tempestosi, appunto. Perché la pandemia blocca e insieme accelera. E il mondo sarà nuovo e sarà per molto tempo difficile per tante, troppe persone. Le aziende “ristruttureranno”, l’intelligenza artificiale fa e farà passi da gigante, la logistica sostituirà il dettaglio. E non è un dettaglio.
E l’alba si allunga ancor di più, come il lockdown light con le mappe colorate, perché i dati continuano a essere orrendi.
Non vedo l’ora che le albe si accorcino e le giornate si possano vivere in tutta la loro pienezza. E il mio augurio non vale solo per me, per Nina, vale per tutti, soprattutto chi farà più fatica a ripartire. Dal punto di vista economico e, non lo dice nessuno perché siamo un paese ahinoi ignorante, dal punto di vista psicologico. Sotto questo profilo i danni, probabilmente, sono e saranno ancora maggiori.
Che finisca, quest’alba, e si torni a vivere. Non solo per lavorare. Che è già una condanna per chi il lavoro ce l’ha, figuriamoci per i tantissimi che non ce l’hanno o non lo avranno più.
Perché la politica, in sostanza, è umanità.
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