Luciana “Luce” Romoli, Roma, 12 giugno 2021, ospite di Possibile.
Voglio raccontarvi la storia di Deborah, la mia compagna di banco, la mia amica del cuore. Voi sapete com’è un’amica del cuore. È l’amica a cui confidi i segreti, con cui condividi tutto. Abitavamo nello stesso palazzo, eravamo insieme fin dall’asilo.
Nel 1938 facevamo la terza elementare. Era da poco cominciato l’anno scolastico, erano state emanate le leggi razziali. Quel giorno non abbiamo trovato la nostra maestra in classe, ma è venuta una supplente, mai vista prima – non era nemmeno andata nella stanza delle maestre a presentarsi.
È venuta direttamente nella nostra classe, era vestita da “giovane italiana”: una gonna lunga nera, una camicetta bianca con su scritto “Mussolini”, un cappellino con cui dimostrava di essere la dirigente dell’organizzazione giovanile del Fascio.
È entrata nella nostra classe. Faccio una precisazione: il fascismo nei quartieri popolari non aveva costruito le scuole. A Casal Bertone erano ricavate nei negozi, in spazi qualsiasi. Si iniziava con il saluto al duce: «eia eia alalà». Spesso i figli delle famiglie operaie intonavano, con la stessa cantilena: «che te possino ammazzà».
Fa l’appello, la supplente. Quando arriva a Deborah, le dice: «Tu rimani in piedi!».
Lei vicina a me tremava, io mi sono accostata a lei. Ma lei tremava. La supplente le va incontro, la tira, la trascina, la porta vicino alla cattedra e lega le lunghe trecce di Deborah al cordone della tenda.
Immaginatevi noi. Eravamo 37 in classe. Lei comincia a dire: «È il tuo ultimo giorno di scuola! Di tutti gli ebrei!». Ci ha fatto l’elenco delle attività e delle persone che non potevano più lavorare.
Poi si è rivolta a noi. Avevamo paura. Ha detto: «Voglio dirvi che gli ebrei non hanno diritto di vivere». La nostra compagna legata lì, noi terrorizzate.
«Bambine, prendete il quaderno a righe e scrivete un pensierino sui maledetti ebrei!». Noi ci rifiutiamo. Tutte. Allora la supplente si precipita al primo banco e costringe una bambina a scrivere. Lei si oppone e la supplente le sbatte la testa sul banco. I banchi di allora non erano come quelli di oggi: c’era un buco e in quel buco c’era il calamaio.
Sbattendo la testa, l’inchiostro le è andato negli occhi. Il grembiulino era tutto sporco e le nostre compagne l’hanno portata al bagno.
A questo punto tutta la classe si è ribellata, siamo andate contro la supplente, l’abbiamo buttata per terra, picchiata, calci e pugni. Due bambine hanno cercato di liberare Deborah, salendo sulla cattedra. Solo una bambina più grande c’è riuscita.
La supplente a quel punto ha urlato: «Bambine, prendete la cartella e andatevene!».
Noi siamo uscite dalla scuola. Lei non se ne è andata. È rimasta davanti alla scuola, dove c’era un grande prato, più di un’ora. Allora io ho detto: «Che ne dite se vado a casa – mio padre era laureato, mio zio tipografo – e oggi pomeriggio venite a casa mia: ognuna si prende un volantino e si mette davanti alla porta della sua classe a distribuirlo, domattina».
Mio zio nei aveva fatti tantissimi, c’era un tavolone grandissimo su cui erano appoggiati i pacchi. Arrivavano i bambini, contavano quanti scolari ci fossero nella loro classe e se ne andavano. Tutti hanno collaborato.
I volantini si sono diffusi in tutta Roma, tra gli antifascisti, che a Casal Bertone non erano pochi.
Il giorno dopo sono arrivati tre dirigenti nazionali del Fascio e sono andati dalla direttrice, dicendo che, se non fossero emersi i colpevoli, ogni classe di tutte le scuole del Regno avrebbe dovuto scegliere un alunno da espellere.
La direttrice convocò mia sorella e me, perché ci conosceva, sapeva che eravamo state noi.
«Faccio l’espulsione solo per voi». Mia sorella e io siamo state espulse. E a scuola non ci siamo più potute andare.
Voglio dirvi una cosa bellissima, sapete cos’è la solidarietà? La nostra insegnante per due anni ci ha recapitato i compiti. Ogni mattina, ci mandava una bambina diversa perché voleva che noi stessimo in contatto con tutta la classe.
Io e Deborah abitavamo nello stesso palazzo – Scala B, Scala E – e lei si portava il fratellino a studiare con noi.
Tutto bene, abbiamo studiato, ma non potevamo dare gli esami.
Quando c’è stata la deportazione degli ebrei, Deborah, la sua famiglia e tutti gli ebrei di Casal Bertone sono scomparsi. Noi non abbiamo mai saputo chi li ha portati via e quando. Non mi sono rassegnata. L’ho aspettata fino al 2014, ma non ricordavo il cognome, perché da bambine non ci si chiama per cognome. Mi ricordavo solo che avesse un anno più di me. Poi quell’anno, dopo una ricerca di mio marito negli archivi del Centro di documentazione ebraica, siamo riusciti a risalire a lei per via dell’indirizzo, che ricordavo.
Sono andata a Auschwitz, nel 2015. Un parallelepipedo di vetro, lungo, grandissimo. E c’erano i capelli delle persone deportato. Io ho messo una mano su questo vetro. Per accarezzare le trecce di Deborah.
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