Con Marco Tiberi, in Fine, quando le cose si iniziano a mettere davvero male, un gilet nero grida «è finito lo champagne!». Ed è il segnale che la rivoluzione può iniziare.
Leggendo Emmanuel Carrère, ieri, su Repubblica, e il suo reportage «Racconto di una guerra», ho incontrato questo passo:
A Mosca ho due buoni amici, Pavel ed Emmanuel, che dirigono la Camera di commercio franco-russa. Persone ponderate, colte, che amano appassionatamente la Russia e ragionevolmente i suoi dirigenti, perché il loro mestiere è di sostenere le imprese e gli investitori francesi, non Navalnij. Un esempio di quali sono le loro preoccupazioni, in tempi normali: la Russia importa una gran quantità di champagne costosi, perché l’oligarca ama il Dom Pérignon. Ne produce anche un’imitazione, uno spumante chiamato shampanskoe. Atto primo: la Russia ha preteso che il suo shampanskoe abbia il diritto di portare il nome prestigioso di «champagne».
Atto secondo: ora pretende che lo champagne francese prenda quello, infamante, di «vino frizzante». E talmente putiniano, come modo di fare, che qualche giorno fa pensavo ancora di scriverci su un corsivetto caustico, e un altro sul veterinario che corre da una casa di espatriati all’altra per firmare i certificati che consentano agli animali da compagnia dei circa quattromila francesi residenti a Mosca di lasciare il Paese. Ma la voglia di scrivere corsivetti caustici mi è passata in fretta.
Carrère con i suoi due amici beve le ultime bottiglie, le migliori, mentre ragiona sulla fine di un mondo, perché la guerra lo è, sempre. Lo shampaskoe come metafora di uno stato di cose, di un sistema di potere, di una boccia che diventa una molotov. E si infiamma tutto ciò che c’è intorno.
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