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Dal basso verso l’alto, la politica dei giorni a venire
Scorre l’A4, sotto di noi. Nel Nord è meglio non girare da soli, di questi tempi, e mi accompagna Fausto, che fa Perego di cognome, è stato vicesindaco di Arcore e mi dice: «Siamo riusciti a sostituire Berlusconi». E io: «Cosa?». «Sì, abbiamo preso il suo posto nell’angolo. Lui ne è uscito e vi ci siamo infilati noi». Fausto è così, Berlusconi lo conosce. L’ha visto da vicino. Anche ‘prima’. E l’apertura del Corriere gli dà ragione. Il titolo è: «Mobilitiamoci» e lo dice il premier in carica. Cose che succedono solo da noi, in questo tempo rovesciato, in cui a chiedere le elezioni anticipate è il capo del governo, i garantisti diventano forcaioli e i moderati sono quelli dell’opposizione.
E tutti a dire, da vent’anni, che è un problema di comunicazione. Ma non è vero. Magari fosse così. Magari il problema fosse solo quello di non fare campagne di comunicazione brutte come le ultime. È un problema di argomenti. E di stile. La questione morale è anche una questione estetica. E di comportamenti e di modi di fare. E magari di radicalità, senza per questo pensare che si tratti di estremismo. No, radicalità significa andare in profondità, spiegare le cose ed essere chiari, lineari, coerenti quando le raccontiamo.
È soprattutto un problema di simboli. E di immaginario. Lo scrive Massimiliano Panarari in un libro che andrebbe distribuito a tutti i democratici sparsi per il Paese. «Mi pare ci siano due temi fondamentali, e non più aggirabili», mi dice Massimiliano. «Sono temi della sinistra, fanno parte del suo dna». Massimiliano è chiaro: «Prima di tutto, la partecipazione, il bisogno di riportare a intervenire e a dire la propria i nostri concittadini e le nostre concittadine e, in particolare, le giovani generazioni che la gerontocrazia e i tratti da Antico regime di questo nostro Paese tengono fuori dai processi e, soprattutto, dalle sedi decisionali». E già basterebbe. Ma poi Massimiliano rincara la dose: «La cultura nella nostra epoca, postmoderna e liquida, si intreccia strettissimamente con l’immaginario, con la dimensione simbolica, della conoscenza e delle mentalità. Uno dei (tanti) problemi che ci troviamo a dovere affrontare consiste proprio nel fatto che l’immaginario di moltissimi italiani, purtroppo, è stato occupato in modo “militare” da un’egemonia sottoculturale che li induce ad abbracciare in modo quasi inconsapevole la visione di una brutta destra egoista, socialmente darwiniana e insofferente alle regole della convivenza civile».
È il campo di gioco che è già concepito a immagine e somiglianza della destra. E noi fatichiamo: «Fare politica nei nostri tempi significa proprio generare culture e immaginari nuovi, e in linea con le nostre idealità».
Prendete i giovani, ad esempio. Nel Risorgimento erano tutti ventenni. I trentenni erano già leader di una certa esperienza. E noi siamo qui a parlare non dei giovani elettori, ma dei giovani dirigenti del Pd. Come se il problema fosse questo. E i giovani-non-dirigenti non si sa come coinvolgerli, lo ripetiamo in ogni riunione, a ogni convegno. E allora andiamo a Torino. Pensando ai moti del 1821, al «mobilitiamoci» di casa nostra e, magari, al Move On che ha aperto la strada ai democratici americani.
Per convincere i giovani, bisognerebbe unire il giorno e la notte. I sogni e la realtà. Nell’epoca della classe creativa tutto ciò ha un significato anche economico. Nell’epoca dell’insicurezza serve a fare uscire le aree della nostra città dal degrado. E si può fare politica anche di notte, come dimostra l’esperienza di «Torino Sistema Solare» (www.torinosistemasolare.it). Contro il nucleare, per l’acqua pubblica, per spiegare dove iniziano e dove finiscono le piste di cocaina. Max Casacci dei Subsonica te lo spiega, senza fare mai l’antipolitico. Anzi, in un dialogo continuo con la politica. Chiedendo di più: orgoglio per la città e creatività. Insieme. Cose pratiche e cose importanti, dice Max. Dal basso verso l’alto, me la spiego io. Spazi, piazze, luoghi di incontro anche per trasformare la politica in qualcosa che possa ospitare il dibattito e aprire le porte a chi ne è estraneo. La città, dice Ilda, che fa l’assessore con Chiamparino e si occupa di cittadinanza, è «il luogo della relazione tra diversi» e ci invita quotidianamente a una riflessione sull’uso sociale dello spazio pubblico. Ilda, che ha appena finito di leggere Reichlin (Il midollo del leone), sostiene che non basti l’amministrazione: «averlo pensato è stato il nostro più grande errore». Ci vuole la politica. Che sappia accompagnare i processi culturali, che assuma il conflitto pensando al modo migliore per comporlo, attraverso una partecipazione vissuta e non solo teorizzata. Tra Porta Palazzo e San Salvario o tra Torino e Berlino, direbbe Max, che addirittura a Torino vorrebbe portare il mare. Una politica per la città, contro le sue «cattive energie», che non ricorra alle ideologie e alle icone del Novecento, ma che abbia l’obiettivo di viverla e farla vivere. Perché, anche se a volte ce ne dimentichiamo, si può vivere di notte e si può (addirittura) sognare di giorno.
E mi viene in mente che Berlusconi è basso. Non per ragioni di statura, e per fare gli spiritosi. È basso perché propone un modello che non alza mai lo sguardo, non guarda lontano, si preoccupa esclusivamente del presente. E se vogliamo batterlo, alziamolo, questo sguardo, prima che sia troppo tardi.
Ad Alessandria Giulio Massobrio ci spiega che la questione dell’identità storica è un po’ complicata in una provincia di frontiera (e a proposito di province, Casale ne vorrebbe una tutta sua, anzi no: federata con Vercelli, perché oltre alla finanza creativa c’è anche il federalismo creativo). L’identità di Alessandria, con i soldati mandati là da tutti i confini del mondo conosciuto, con una formula multietnica prima che inventassero l’aggettivo. E con la cittadella, dove sventolò il tricolore di Santorre di Santa Rosa, di cui gli alessandrini oggi non sanno bene cosa fare. E non c’è federalismo demaniale che tenga.
L’identità territoriale è un fatto che conta nelle campagne elettorali ma non ha alcuna ricaduta concreta nella vita amministrativa. Ci si appassiona a cose che non esistono perché quelle che esistono sono difficili da definire e da governare, soprattutto. E allora a Valenza c’è la crisi dell’oro, a Novi se la cavano con gli outlet (un distretto commerciale?), a Casale si è congelato anche il distretto del freddo. E mettere insieme i pezzi, come cercano di fare a Radio Gold – uno di quei media locali incredibilmente progressisti e innovativi – è difficile. Forse perché bisognava capire i luoghi e rilanciarne la ‘vocazione’, pensando al futuro e non solo costruendosi un passato spesso artefatto. Magari insegnando il torinese ad Alessandria, che sabauda è diventata solo molto tardi, troppo, anche per il dialetto, che qui infatti è un incrocio di parlate diverse. E oltre ai territori bisognava capire dove andavano i flussi economici, commerciali, insomma vitali, che nella politica italiana sono rimasti soltanto flussi di coscienza e chiacchiere localistiche. Provinciali, in quel senso che alla provincia non fa onore. E locali sì, ma non come i locali di Max e della notte torinese. Dove i giovani entrano ed escono, sperando di incontrare qualcuno che abbia qualcosa da raccontare loro. Per l’indomani. E per i giorni a venire.
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