Il titolo del pezzo di domani, che troverete in edicola, per l’Unità. Il pezzo di ieri, qui di seguito:
Freud a Livorno e le conseguenze della passione
Questa mattina, per la prima volta da quando siamo partiti, non piove. Nella notte, penso, deve essere caduto il governo: lo so che è facile, la battuta, ma a suo modo molto risorgimentale. E sono giorni che piove. Forte. Sempre.
La partenza da Castelnovo ne’ Monti lo conferma: dapprima con la nebbia (governo che naviga a vista?). Poi, appena superato il borgo di Fivizzano, il paese di Bondi quand’era comunista, ricomincia a piovere. A catinelle. Tra Fantozzi e Berlusconi, il cielo è molto basso. E sempre più giù andiamo anche noi.
Mi trovo ai piedi della pietra di Bismantova, uno di quei luoghi mitici della Divina Commedia. Perché «qui convien ch’om voli» e si parla di ali snelle, di piume e del «gran disio». Del volo da spiccare, insomma, un po’ folle e un po’ no, perché Dante, alla fine, il disegno ce l’aveva. Eccome. La conferma che a me gli Appennini piacciono un sacco. Sarà per via delle strade tortuose, per il verde così dolce o, forse, perché poi, dietro una svolta, ecco il mare.
E così, in un baleno e nella tormenta, arriviamo a Livorno. Paolo Virzì, per descriverla, parte dal carattere libertario della città, di questa «Toscana senza aristocrazia», in cui si suol dire che «non si è mica camerieri», perché non si è servi di nessuno. E a tutto questo corrisponde un fortissimo, e distintivo, «senso di solidarietà tra gli ultimi».
«Se Freud fosse nato a Livorno», dice Virzì, «non ci sarebbero l’io e il super-io, ci sarebbe solo il noi». Un senso collettivo che corrisponde a un’identità rivendicata «fino al limite del patologico». Tu chiamala, se vuoi, comunità. Che c’è ancora. E che tiene insieme la città, nonostante le difficoltà economiche e i gravissimi problemi occupazionali che ha conosciuto e conosce. Il «senso di appartenenza è quello che rimane», nella «tribù» di cui i livornesi si sentono parte. Perché cambia tutto, dappertutto, ma non a Livorno.
Da tempo penso che i titoli dei film di Virzì siano anche un messaggio per la sinistra italiana nel suo complesso. Da Ovosodo, per capirci, che non va né su, né giù, a La prima cosa bella, che poi ci tocca sempre ricominciare. E, a questo proposito, «era bella l’idea del Pd», dice Virzì, anche se ormai «ne parliamo come se fosse una cosa del secolo scorso». E «Tutta la vita davanti era un titolo un po’ sarcastico», aggiunge il regista. E però ci sono ancora le «intelligenze» e le «differenze», non è vero che tutto sia omologato. Virzì mi parla di Otranto, altro luogo fantastico. Di un giovane sindaco del Pd, della cultura della convivenza, della raccolta differenziata. E di un’Italia che non è tutta uguale. E questa volta è una buona notizia.
L’unica cosa che unisce l’Italia, il suo «tratto comune», sono «le nuove generazioni con le mani in mano». Che non ce la fanno con il lavoro, con la casa. Con la loro vita. Un «mondo soggiogato» dalle generazioni precedenti, che «tengono in scacco le scelte politiche». Se si vuole cambiare si deve dare «semaforo verde» a chi ha «l’energia e la voglia».
Prima di tutto si deve recuperare il «valore esistenziale del vivere civile». E la passione. «L’afflato per le moltitudini». Per parlarmi del ‘nuovo’, Virzì usa parole antiche, Virzì. E poi, «l’antipolitica e la Realpolitik, che siano due facce della stessa medaglia?». Lo credo anch’io.
Eppure la politica quando muove emozioni, idee e progetti, quando ci parla del futuro piace ancora. «Mi ha sorpreso, ad esempio, che Vendola sia stato rimproverato da D’Alema, che pure ha ragione quando difende il ruolo e la dignità della politica, a proposito della cosa più positiva che sa esprimere: la poesia». Perché la politica è anche poesia, dice Virzì, non solo ordinaria amministrazione. E però va distinta la poesia buona da quella fasulla, «alla Bondi», dice malizioso, precisando. «Ma quando tra tanti poeti ne trovi uno vero», e Virzì ricorda a memoria De Gregori, «è come partire lontano, come viaggiare davvero». E allora viaggiamo.
Solo che gli universitari pisani che son venuti fin qui per parlarci di Curtatone sono in ritardo. Il proverbiale «soccorso di Pisa», già. Si mangia cacciucco, ovviamente. A furia di frequentare i luoghi comuni, lo sto diventando anch’io.
I pisani, per bocca del consigliere Marco Bani, declamano la vicenda degli universitari a Curtatone. Il Bani parla di Termopili e non ha dubbi circa l’eroismo del contingente universitario. Erano 300, anche loro. Un numero che in battaglie di un certo tipo, evidentemente, fa segno all’eroismo, ma porta anche un po’ sfortuna, a dirla tutta. Lasciamo i pisani e le loro feluche mozzate, per sparare meglio, con più precisione, e molliamo gli ormeggi. Si arriva, nell’acqua, neanche procedessimo «via mare», come i Mille, a Talamone.
Mi trovo al circolo che dà sul porto. All’ingresso si celebrano i 150 anni di Garibaldi, che qui fece scalo andando verso Marsala. Ora sarebbe meglio che navi così grandi non attraccassero. E che si desse retta al nuovo assessore regionale, Anna Marson, e alle sue preoccupazioni per il consumo di suolo e per il paesaggio. E per uno sviluppo del porto compatibile con la rocca e anche con le esigenze di chi ci lavora e dà lavoro – come Antonio Orlandi, che è uno di destra «molto sociale», e dice cose condivisibili, nonostante qualche «bruttura», ammette, da sistemare. E ha parecchio da dire anche rispetto all’amministrazione comunale, che a Talamone dedica poche attenzioni, perché «è molto interessata al business». E alle grandi opere. La solita storia. Mentre parla, mi viene anche lo slogan: «Un porto aperto sul parco», il parco dell’Uccellina. La prima cosa bella.
Mentre scrivo, penso che qui il sindaco lo fa Matteoli. Il ministro. Anzi, sembra non lo faccia, perché gli elementi di degrado colpiscono. A cominciare dallo splendido gabbiotto della Pro Loco. Un container per la promozione del turismo: non male. «Prima Talamone e poi il porto», dice Antonio Cagnacci. E chiude la partita.
Un biliardino mi disturba. Fossi leghista, lo vieterei. Invece, è estate. E qui l’intruso sono io. L’Italia anche qui è bellissima. E lo sarebbe anche di più, se solo lo volesse. Anche se piove, ancora. E sembra non voler smettere più.
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