Paolo Corsini ha scritto una generosissima recensione di Nostalgia del futuro per il Giornale di Brescia. Eccola.
La stagione congressuale del Partito democratico è in una fase ormai avanzata e può costituire un’occasione feconda, se quanti vi prendono parte ne trarranno motivazione per riflettere sul Paese, sulla sua deriva, alle prese, come appare, con una crisi economico-sociale di vaste proporzioni, nonché con una decadenza dello spirito e dell’etica pubblica che sembra trascinarlo nel vortice dell’apatia, di una piatta indifferenza. La posta in gioco, più che non l’affermazione di una leadership, è, dunque, la capacità di formulare proposte credibili, di costituire un riferimento per affidabili alternative, di suscitare consenso verso un profilo ed un progetto, verso un’agenda programmatica ed una praticabile strategia di governo. Quel che fino ad oggi in tutta evidenza è mancato, con un partito ripiegato su se stesso a contemplare il proprio ombelico, in preda a divisioni della classe dirigente, inabilitato ad individuare una propria base sociale, un “popolo” cui dare rappresentanza ed una riconoscibile,appassionante missione da perseguire con tenacia,con la forza di convinzione di un mito caldo, trascinante. Ben vengano, dunque, i più diversi contributi al dibattito: non se ne gioverà solo il Pd, ma ne potrà trarre una qualche utilità la stessa dialettica democratica del Paese. In quest’ottica costituisce una preziosa provocazione questo breve, ma denso e stimolante, pamphlet dovuto a Giuseppe Civati, Nostalgia del futuro. La sinistra e il Pd da oggi in poi, Venezia, Marsilio, 2009, blogger di indubbio successo, ma soprattutto valido amministratore locale a Monza,prima, oggi consigliere regionale in Lombardia: giovane davvero, perché si ostina a pensare, a riflettere, oltre che essere impegnato a fare, se vale ancora l’aforisma di Croce per il quale la giovinezza non è solo un’età della vita, ma una funzione dell’intelligenza, una pratica del cervello. Ed in effetti non si tratta di inventare personaggi mediatici, ma di riconoscere chi testimonia talenti e virtù, dà prova di capacità, documenta spirito di iniziativa, assume il coraggio di battere sentieri nuovi, non vivendo la giovinezza come una professione remunerativa di riconoscimenti e redditizie posizioni. Come pretesa, insomma, e rivendicazione di una successione ereditaria dovuta. All’inizio dell’esperienza di Civati non stanno parole, ma una quotidianità fatta di studio, di approfondimento, di battaglie politiche condotte sul territorio nel segno della concretezza e del radicamento: una cava ed un inceneritore, un’autostrada da realizzare e un parco da difendere, il “piano terra” invaso dal cemento e la cura per la propria città, l’incontro con i pendolari e la difesa del kebab, ed insieme un patrimonio di liste civiche, quanto, a ben guardare, all’inizio definiva il Partito democratico come una figura inedita della politica italiana. Il partito dei cittadini, della mobilitazione civile, quasi una assurdità nella Repubblica dei partiti che misconosce i partiti della repubblica, appunto della cosa pubblica. Una formazione politica capace di suscitare sequela in quanto all’iscritto, all’aderente, all’elettore non si chiede “da dove vieni”, ma “dove vogliamo andare”. Civati è giustamente impietoso nella diagnosi di una sconfitta: non la semplice sommatoria di ripetute batoste elettorali, ma la smentita di una promessa, l’atrofia di un rinnovamento, la metamorfosi di un’idea, con il loro carico di delusioni ed esclusioni, la mortificazione di aspettative ed affidamenti. Una sorta di sindrome weimariana, di vocazione al cupio dissolvi in cui le responsabilità di chi è incaricato della narrazione di una defaillance-l’amalgama non riuscito di Ds e Margherita, la fusione a freddo, il minicompromesso storico- si assommano a scelte non compiute – le primarie per le candidature al parlamento, la montagna che non si rende conto di doversi recare a far visita a Maometto- e ad una serie di catastrofici errori, frutto di retaggi del passato o da imputare all’attuale gruppo dirigente, a cominciare dalla vicenda della commissione di vigilanza sulla Rai, dalla questione morale che travolge alcune amministrazioni locali, fino ai casi di Napoli, della Campania, alle laceranti contrapposizioni in Sardegna, alla sostituzione di Ignazio Marino, alle pallide ombre proiettate dal Governo-ombra. Da qui la rapida dissoluzione di un profilo unitario e maggioritario, l’indecisione e l’indeterminatezza, un serial i cui protagonisti sono replicanti e cooptati. E poi il gioco delle correnti e i personalismi, con i “vecchi” sempre al loro posto ed i giovani che vengono ammessi solo se danno prova di fedeltà, la discussione astratta e velleitaria sul “settentrional vedovo sito” – la questione del Partito democratico del Nord – sino alla mitopoiesi, alla retorica del nuovo. “Abbiamo enfatizzato il cambiamento senza cambiare, abbiamo descritto un percorso senza nemmeno volerlo cominciare”, questa l’amara conclusione della disamina di Civati che imputa altresi al “luogocomunismo”, ad evidenti limiti di comunicazione un deficit tutto politico di rappresentanza, di iniziativa, di presenza, in una temperie culturale in cui stringente, ineludibile è il rapporto tra coscienza, tempo, politica. L’obiettivo è un “partito esemplare” che, per riprendere la suggestione di un grande vecchio, Vittorio Foa, la sua provocazione di una “pedagogia politica dell’esempio”, “nella sua organizzazione, nella sua vita interna, nella costruzione del proprio profilo, voglia rappresentare fedelmente l’idea d’Italia che ha in mente”. Il metodo – lo dice la stessa etimologia greca del termine – è percorso, viaggio, dunque stare dentro la società, a partire dalla “morte del prossimo” che caratterizza l’egoismo acquisitivo e l’individualismo proprietario dell’ideologia oggi vincente, la spoliazione dell’identità soggettiva, l’anonimato della folla solitaria. E allora Civati propone un Pd abilitato a scendere in una stazione senza biglietteria e con i convogli in perenne ritardo, frequentatore abituale di asili nido, capace di connettersi ad internet, nonchè di interloquire con il popolo della rete, interprete dei problemi della sicurezza, non solo in termini di criminalità, ma anche di difficoltà di convivere, di degrado delle periferie, di paura di non farcela a far crescere i figli, a pagare il mutuo, a vivere una vita decorosa. Un partito “intelligente” – al di là della distinzione speciosa tra il liquido e il solido – , al servizio degli iscritti e degli elettori, a disposizione dei cittadini, oltre l’evanescente disputa su base e vertice, retto sulla “quadratura dei circoli”, sulla loro autonomia territoriale, sul loro coinvolgimento e partecipazione alle decisioni nazionali. Un partito che esca dalla turris eburnea del “modello sinedrio”, consapevole che, come ha scritto Sandor Marai, “una promessa è sempre una bugia”, quindi impegnato all’adesione delle parole ai fatti, che faccia della laicità il proprio costume nella convinzione che diversità e rapporto con la religione sono temi dirompenti nel nostro tempo, distinguendo tra motivazioni di fede, nutrimento del cammino esistenziale di molti, e leggi che regolano i comportamenti di tutti. Né Civati sottace problemi di straordinaria concretezza e rilevanza quali la micropolitica della cittadinanza, la sfida ambientale, la green economy, insomma il Paese al quale il Pd deve tornare, le sfide della politica – il rapporto con l’Udc e con gli elettori del Nord, “senza passare dalla Lega” – il lavoro e la mobilità sociale, nella speranza che si possano adottare “almanacchi” e “lunari nuovi”, senza quel pessimismo quasi rassegnato di una formazione perennemente in preda a passioni tristi. Vocata, piuttosto, ad essere un partito di qualcosa e di qualcuno, finalmente approdato alla sommità del valico, là da dove – la suggestione è di Reinhart Kosellek – sarà possibile “muoversi verso un fine”.
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