Quello che ho cercato di dire oggi a Milano, in occasione della presentazione della candidatura di Ignazio Marino e del progetto politico che lo accompagna.
Forse qualcuno li prenderà per sogni di mezza estate, ma noi desideriamo cambiare.
E, per farlo, dobbiamo cambiare prima di tutto le parole della politica italiana, almeno le nostre.
Non più «posizioni prevalenti», ma decisioni.
Non più tatticismi, politicismi, caminetti, ma occasioni di dibattito e di confronto.
Non più esempi negativi, ma esempi e basta, nei quali finalmente riconoscerci.
Desideriamo non parlare più della divisione tra partito e società civile, come se noi oggi fossimo società civile fino alle sei del pomeriggio e poi diventassimo partito dalle 18 in poi.
Non desideriamo più frasi drammatiche che nascondono una certa debolezza e portano anche sfortuna.
Come «o si cambia, o si muore» e, siccome si cambia poco, si tende poi a morire.
O a pensare che il 26% “tutto sommato” vada anche bene. Tutto sommato, appunto: i conflitti, le correnti, le divisioni, le tele di Penelope che produciamo in batteria, lo scaricabarile, lo scaricasegretario, lo scaricapartito. Tutto sommato.
Un continuo rimproverarsi errori a vicenda, quando tutti ne sono più o meno responsabili.
Mettiamo tra parentesi tutto questo. E non drammatizziamo il cambiamento, pratichiamolo. Una buona volta.
E, allora, chiudiamo gli occhi e proviamo a pensare al Pd come il Pd non è mai stato.
Un partito autorevole, che ascolta tante voci e poi ne ha una sola.
Che interviene puntualmente e con precisione. Un partito che è vicino, prossimo alla vita delle persone: quando le persone parlano di sicurezza, non divaga, non si abbandona a strani giri di parole, sa che cosa dire sulla sicurezza; quando si tratta di scelte economiche ha una posizione chiara, immediatamente comprensibile; quando progetta il futuro, questo futuro lo vede. E lo sa raccontare.
Un partito che non parla d’altro, un partito contemporaneo, che discute e affronta i problemi del suo tempo.
Un partito orgoglioso e ambizioso, che guarda allo schieramento del centrosinistra nella sua interezza, a tutti quegli elettori che si sentono persi, traditi, a tutto il campo di quella che fu l’Unione, perché riconoscano nel Pd la soluzione che cercavano alla frammentazione e alle nostre divisioni ormai proverbiali.
Un partito che si rivolga agli elettori, prima che alle segreterie di partito.
E che solo su questa base avvii una politica di alleanze sostenibili e credibili, in cui ci si chieda sempre: mi alleo volentieri, ma per fare che cosa esattamente? Per cambiare questo Paese o per conservarlo così com’è? Perché altrimenti non ci capiamo più e non ci capisce più nessuno.
Un partito che guarda al Paese nella sua complessità. Con un respiro maggioritario e un sospiro (che vi assicuro essere altrettanto maggioritario) ogni volta che vede atteggiamenti di chiusura e di retroguardia nel centrosinistra italiano.
In queste ultime settimane, abbiamo visto il partito degli «appartati», più che quello degli apparati, «appartati» che fanno poche tessere o ne fanno troppe. E nessuno li ferma o li sollecita, a seconda dei casi, senza capire che così facendo perdiamo credibilità.
Un partito dove qualcuno dice se ne andrà se vincerà Marino, mentre noi desideriamo un partito in cui si rimane anche se vincono gli altri.
E a chi ha qualche nostalgia, vorrei dire che la sinistra, lo schieramento progressista, lo spirito dell’Ulivo non sono dati una volta per tutte. Non è soltanto una tradizione, deve misurarsi con le sfide nuove. Non è una ricetta sempre valida, è una posizione da verificare con il mondo che cambia e da mettere in pratica con gli strumenti di oggi.
Per questo desideriamo un partito intelligente che non vive di conflittualità, ma sa coniugare rete e territorio, bocciofile e web, circoli e associazioni.
Un partito informato, inserito, esemplare.
In cui si sappia dove vanno a finire i soldi del rimborso elettorale, in cui si sa chi è tesserato, in cui si sa chi vota alle primarie. E in cui siamo finalmente chiamati a decidere, perché non è mai successo.
Cose così.
Desideriamo un partito che accorci le distanze. Che faccia cose comprensibili a tutti, che parli al Paese ogni volta che prende parola. Sempre.
Un partito non di gerarchie, ma di relazioni e di rapporti. Che il candidato sindaco si decida nella città nella quale si candida e non a Roma (a Milano ne sappiamo qualcosa), che le scelte si facciano con le persone competenti (e non importa se vengono dai Ds o dalla Margherita, da Bersani o Franceschini), che la qualità sia riconosciuta e premiata. Sempre.
Non un partito di pochi, ma un partito aperto sulla società, che ha l’unica preoccupazione di rappresentarne le forze più vive e responsabili.
Un partito strutturato, certo, ma partecipato. Perché le due cose devono andare sempre insieme, perché il modello dei tempi che furono va aggiornato, perché le cose buone di una volta vanno declinate con le modalità rinnovate di una società profondamente cambiata.
Per questo dobbiamo saper vedere i cambiamenti, esserne parte, orientarli verso il meglio e il più opportuno.
Saper vivere d’anticipo sui tempi a venire, come diceva qualcuno.
E possiamo farlo, questo scatto in avanti, perché siamo liberi.
Perché non ci preoccupa il «da dove veniamo», gli ex, il «com’eravamo», ma che cosa abbiamo da dire. E non sprechiamo un giorno di più a parlare di provenienze, ma ci occupiamo di quello che succederà da oggi in poi.
A noi piace la libertà, dalle corporazioni, dalle posizioni di partenza, dai condizionamenti e dal potere costituito. Dal «sempre uguale, sempre quello», come se fossimo condannati a un destino declinante e triste.
A noi piace la chiarezza, la precisione, la responsabilità, la credibilità: come il sole a mezzogiorno, dice quella canzone, senza più nessuna ombra intorno (nemmeno le ombre del governo ombra…).
Perciò, certo, ci rivolgiamo inevitabilmente ai delusi dal Pd, che spesso sono stati gli entusiasti della prima ora. E vogliamo riprendere con loro un sentiero interrotto.
E ci rivolgiamo anche agli astensionisti di questo congresso, per convincerli a partecipare, a votare, a intervenire nel confronto congressuale, con i loro dubbi, con le loro perplessità, con la loro voglia di contribuire alla costruzione del Pd.
Vogliamo guardare l’Italia. Dal punto di vista dei cittadini.
Dal punto di vista dei cittadini, indagare la trama stessa delle questioni che riguardano l’Italia, i suoi ritardi e le sue potenzialità. Senza infingimenti, senza convenienze, senza il conformismo che attanaglia il nostro Paese e qualche volta (più di una volta) anche il nostro partito.
Desideriamo saper rispondere alle domande, perché sappiamo prima di tutto farci le domande in modo corretto.
Desideriamo una politica di verità perché, come dice Zapatero, la verdad en democracia siempre se abre camino, siempre.
Noi non vogliamo l’anti-berlusconismo, desideriamo proprio un’altra cosa, un’altra Italia, un altro governo. Un’altra politica del Pd e del centrosinistra.
Un’alternativa secca, radicale e però capace di trovare consenso, di accompagnare il Paese verso obiettivi più seri, ragionevoli e concreti. Facendo crescere questa esigenza di cambiamento, senza pensare di poterla imporre a un paese fin troppo frastornato, stanco e deluso. Che ha poca fiducia nella politica: una politica che deve prima di tutto cambiare se stessa, se vuole cambiare l’Italia.
«È un lavoro duro», ma qualcuno lo deve pur fare e non capisco a cosa serva un partito democratico, se non a fare questo.
Se si parla di piano casa, la nostra non è una semplice opposizione, dobbiamo avere un nostro piano casa che non prevede la distruzione del territorio italiano o gli affari facili per gli speculatori, ma la possibilità che tutti abbiano un alloggio, con una nuova politica degli affitti, un piano straordinario per l’edilizia residenziale pubblica, l’adozione di nuovi modelli di housing sociale. Per sperimentare la convivenza in una società trasformata, per reinventare i luoghi in cui persone diverse si incontrano, lavorano, portano i bambini all’asilo, pregano, insomma: vivono.
Se c’è un abnorme pacchetto sicurezza, noi avanziamo il «pacchetto integrazione» che parla di regole e di rispetto, di programmazione dei flussi, di rapporti con i Paesi da cui queste persone provengono perché l’Italia non ha una politica per l’integrazione e questo è un ‘caso’ su cui il Pd si deve attivare. Perché non c’è bisogno di respingimenti o ronde democratiche (le rondem, una specie di nuova corrente circolare e, soprattutto, uniforme), ma di un lavoro serio e consapevole, che prenda sul serio la paura e sappia proteggere le persone e fargliela passare, quella paura. Che intervenga contro il degrado delle nostre città, che dia più ‘forza’ e ‘ordine’ alle forze dell’ordine e il rispetto delle regole da parte di tutti. E che, però, preveda la cittadinanza ai nati in Italia e rilanci sul versante della crescita culturale di questo Paese, come cerca di fare, tra mille difficoltà e spesso in solitudine, il mondo della scuola. E ci vorrebbe don Milani anche nella società delle tante culture e delle differenze ancora più sensibili a darci qualche indicazione in più.
Se c’è il porcellum, non ci adattiamo, no, noi ci battiamo con tutte le forze per un nuovo sistema elettorale. Una nuova legge elettorale che privilegi la scelta delle persone che si eleggono e la loro rappresentatività e tuteli il bipolarismo e la governabilità, in un rapporto costante con gli elettori.
Non ci dobbiamo preoccupare di avere astrattamente ragione, né di essere moralisti. Il nostro impegno deve rivolgersi a chi, giovane in difficoltà, non capisce cosa faccia il Pd per lui. A chi, giovane professionista, si trova a confrontarsi con gli studi di settore, e non capisce. A chi perde il lavoro a cinquant’anni e non è aiutato da un sistema di formazione e reinserimento professionale. A chi, imprenditore di se stesso, si trova l’Irap da pagare, anche se non ha dipendenti. A chi, dipendente, si chiede perché le tasse le paghi solo lui e perché non possa detrarre le proprie spese, costringendo anche gli altri, che non se ne curano, a pagarle. E vale la pena di ricordare che quello fiscale è un patto senza il quale non c’è cittadinanza.
Se non riusciamo a spiegarci, non abbiamo ragione. Abbiamo torto. E dobbiamo smettere di pensare a una nostra superiorità, perché la superiorità c’è solo se è condivisa e se ha il consenso necessario per fare le cose.
Se non riusciamo a spiegarci, siamo peggio, non meglio dei nostri avversari. E portiamo la responsabilità di vedere accadere cose sbagliate, senza poter fare nulla per contrastarle.
Desideriamo accompagnare il nostro paese verso standard europei. E dopo aver portato l’Italia in Europa, come fece quell’indimenticabile governo, fare entrare l’Europa in Italia, come pretendiamo faccia il prossimo governo democratico, per le donne, per i giovani, per le coppie, per i progetti di vita di ciascuno di noi.
Desideriamo accompagnare il nostro paese verso il 2010, non portare le lancette dell’orologio indietro di un secolo, per quanto riguarda i diritti dei lavoratori, le donne (ancora una volta), la possibilità di progredire dal punto di vista sociale e culturale.
Desideriamo un Pd che dica no al nucleare, perché ha un piano energetico alternativo, credibile e sostenibile.
Desideriamo un Pd che abbia pronta una legge sulle unioni civili, sul divorzio breve e su altre questioni che riguardano la vita delle persone. La loro vita. Non le nostre opinioni.
Desideriamo un Paese che si prenda cura della crisi, che non la banalizzi, che la prenda sul serio, come sono costrette a fare, ogni mattina, le persone normali.
È insultante quello che è successo in Italia. Si è intervenuto troppo poco, troppo tardi e molto male. E il Pd deve denunciarlo e correre ai ripari, con una politica industriale che manca a questo Paese, con la capacità di indicare le strade dell’innovazione e della crescita, senza sprecare i soldi, spesso tra l’altro soltanto promessi. Provate a chiedere a un imprenditore quanti finanziamenti gli siano pervenuti in questi mesi e quale aiuto abbia trovato nella politica italiana.
Vorremmo che i precari si sentissero rappresentati dal Pd. E che il Pd fosse meno precario sulle questioni del mercato del lavoro, con una proposta chiara di riforma degli ammortizzatori sociali, del contratto unico e del sostegno a chi perde il lavoro. «Lavoratori, unitevi!» era uno slogan antico, che va in qualche modo ripreso.
Desideriamo una politica che faccia questo, e che denunci tutto il resto, come inutile e dannoso.
Per questo, la nostra non è una piattaforma statica, ma qualcosa da costruire insieme.
Il nostro viaggio è appena iniziato.
Un congresso che ci deve fondare e dare un profilo chiaro. Farci lavorare con passione per i prossimi anni. Perché il congresso è il primo passo, non dimentichiamolo mai, una lunga gestazione a cui vogliamo partecipare con cura e rispetto dei concorrenti, senza paura di sollecitarli e di confrontarci nel famoso merito delle questioni. Che, se ci pensate, merito è proprio una bella parola.
Siamo con Marino e sotto Marino: sottomarini. Una rete di persone che intende muoversi in profondità nei problemi del paese e nella perlustrazione del territorio, ma che è soprattutto affezionata al periscopio, alla possibilità di guardarsi intorno, curiosa di capire cosa succede nelle metropoli, e nelle tante piccole e medie comunità del nostro Paese.
Un riformismo irrequieto e aperto, che cerca soluzioni, che non dà nulla per scontato, che esplora l’inesplorato.
Sottomarini, di colore giallo, perché non si sa mai come vanno a finire i congressi.
Sottomarini, capaci di emergere in superficie e di parlare a nome del Pd.
Attraverso il Paese.
Non vogliamo il partito del Nord, e nemmeno quello del Sud. Ma un progetto per il Nord e per il Sud sì, e ci impegniamo a presentarlo nelle prossime settimane. Per descrivere quello che può essere un partito federale e autonomo, prima che il Pd in certe zone del Paese scompaia del tutto.
Immaginiamo una rotta nuova, forse. Certamente qualcosa di diverso.
Diverso dal solito, da quello che abbiamo sempre visto.
Siamo partiti in tempi non sospetti da Milano con una Carovana, abbiamo raggiunto ogni confine, discusso a Piombino, convocato tutti al Lingotto, a due anni dal momento in cui la storia del Pd è iniziata. Un appuntamento in cui abbiamo ospitato tutti e tre i concorrenti principali di questo Congresso. Nel caso di Marino, ante litteram (ante candidaturam?). Mancavano solo Adinolfi e Nicolini che salutiamo affettuosamente.
E questo viaggio ci ha portato a Negrar, nel profondo Nord, sul luogo di lavoro di una personalità che ci sembrava rispondere al profilo che cercavamo.
A noi non interessano i posti, a noi piacciono le proposte. E ne abbiamo incontrate parecchie, nei circoli, nelle feste, nelle strade, nelle piazze, nei capannoni e nelle fabbriche del paese.
E abbiamo voluto lavorare con una vasta rete e in pochi giorni siamo riusciti ad attivare tanti cittadini che sono diventati, in pochi giorni, nuovi democratici. Tutte le persone che hanno voluto raccogliere questa sfida: le voglio ringraziare.
A loro è dedicato il nostro progetto, a loro è dedicata la nostra mozione, che è frutto del lavoro corale di decine di persone e che sarà anche un progetto wiki, in una elaborazione progressiva che proseguirà nei prossimi mesi. Che si arricchirà di contenuti, in coerenza con le linee politiche generali che abbiamo voluto indicare.
E all’insegna di uno stile diverso che non vogliamo perdere, perché le cose che diciamo, ci piace anche farle in prima persona.
Perché noi amiamo il coinvolgimento, non ci piace il sinedrio, e perché la coscienza, lasciatemelo dire, ce l’abbiamo anche noi, non solo i parlamentari.
Perché a noi, oltre alla libertà, piace l’unità.
Quella che si raggiunge con il dibattito, con il confronto vero, non con le polemiche da agenzia di stampa. Perché in questo partito si è litigato tanto, a lungo, e si è discusso molto poco, e per la verità si è fatto anche fatica a trovare le sedi dove discutere.
Come la leggerezza per essere tale deve risolvere la complessità, così l’unità non nega il dibattito. Anzi, lo promuove ogni volta che può.
E, in questo schema, desidero un partito unitario.
Un partito che sa creare relazioni. Che unisce i territori proprio perché ne promuove l’autonomia, che collega Nord e Sud superando i luoghi comuni, che invita le generazioni a un confronto, che sa valutare l’importanza del ricambio e della maturità. Che dà un’idea di una comunità di persone, che lavorano allo stesso obiettivo, dopo essersi chiarite per bene quale è la strada da prendere.
Sarà un percorso di lungo periodo, ben oltre il 25 ottobre, attraverso le Regionali, verso il 2013.
Del resto, il nostro ritardo non è solo elettorale, è politico. Anzi, è culturale. Non dimentichiamolo.
Il viaggio sarà lungo. Se lo faremo insieme, ci sentiremo più forti e raggiungeremo quella città che oggi intravediamo soltanto e che abbiamo voluto chiamare Partito democratico.
Buon viaggio, allora.

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