Sia detto senza retorica alcuna e con qualche elemento di autocritica: una pausa all’Aquila fa bene al Pd e alla politica del nostro Paese (e ha fatto bene anche a me). Perché ci invita a spostare l’accento sulle cose più importanti, su quella realtà lasciata da parte per troppo tempo: stravolta da qualcuno (da sempre più interessato al marketing che alla sostanza), e trascurata (quando non dimenticata) dagli altri, che poi saremmo noi. Troppo politicismo in questo partito, in questo congresso. Troppe formule e troppo poca realtà, in una sorta di coazione a ripetere che non abbandona mai il Pd e la sinistra italiana e che ci fa perdere quel principio di realtà, appunto, che invece dovremmo sempre tener presente. Eppure ci sarebbe da parlare a lungo – anche sui media nazionali, magari riprendendo gli ottimi interventi di chi ha parlato alla Camera a nome del Pd – di una città spettrale, in cui i cittadini si troveranno a pagare le tasse a partire dall’inizio dell’anno prossimo, comprese quelle che non hanno pagato in questi mesi. Non c’è una legge per questo terremoto, qualsiasi intervento è legato a strumenti incerti e imprecisi: non si è seguito il modello umbro, senza però avere idea di quello con cui lo si sostituiva. All’Aquila manca ancora quasi tutto, nelle tendopoli non si resiste più, l’atmosfera è pervasa di tristezza e depressione: le promesse, come al solito, non hanno avuto alcun seguito. C’è poco da fare: i riflettori del G8, puntati su Obama e sui grandi della terra, si sono spenti. Come se non lo sapessimo già, la realtà non è una location. E abbiamo per l’ennesima volta dato prova del nostro provincialismo e della nostra incapacità di distinguere tra la prosopopea e le cose che accadevano davvero. Come dice un caro amico aquilano, abbiamo visto arrivare dal cielo l’ufo di una politica diversa, nella persona del presidente degli Stati Uniti d’America, e non abbiamo saputo farne tesoro. Siamo presto (subito!) tornati alla maledettissima mediatizzazione, al fascismo gestuale del premier e al nostro sfinente dibattito a colpi di gossip e di dichiarazioni, come se non fosse un insulto abbandonarsi a simili atteggiamenti nell’Italia del terremoto e in quella della crisi. Alla realtà e a una dimensione più sobria e intelligente della politica siamo tornati, invitati da Michele Fina, segretario del Pd locale, quasi si trattasse di un secondo Lingotto, a distanza di un mese dal primo (Michele, ricorderete, aprì la nostra giornata torinese con un intervento appassionato e con l’invito ad andare all’Aquila). E si è parlato di quell’unità d’Italia che non è una ricorrenza, né una cerimonia, ma un fatto politico e un tema da frequentare e da praticare. Che tiene collegati, è proprio il caso di dirlo, Nord e Sud (per me il tema dei temi di questo congresso), che cerca di rimettere al centro la vita delle persone. E che deve ricordare al Pd che bisogna essere uniti almeno per un giorno e almeno in quelle occasioni che ci si presentano, in cui ci si deve confrontare con la società e con le sue esigenze. Con la politica che non insegue, che non sconta ritardi rispetto alle manifestazioni di solidarietà che ci sono state, ma che si dimostra all’altezza, che è a fianco dell’impegno civile dimostrato in questi mesi e che, se riesce, si pone alla guida del processo di riscatto della comunità aquilana. Tra le montagne abruzzesi, lontani dai soliti schemi, con uno sforzo per studiare, denunciare, elaborare soluzioni. Qui non c’è spazio per chi si rimira l’ombelico. Qui c’è bisogno di politica, del senso delle istituzioni e del ruolo che deve avere l’opposizione. Che deve essere costruttiva, ma non può nemmeno chiudere gli occhi. Che deve lanciare proposte. E allora da quello slogan con cui gli aquilani hanno accolto Obama («Yes, we camp») abbiamo pensato che forse il Pd può lanciare una grande campagna per dotare l’università dell’Aquila di un campus sul modello di Stanford (California) per dare alloggio ai cinquemila studenti che, altrimenti, se ne andrebbero via. Studiando quello che gli Usa hanno fatto a New Orleans, rispetto all’emergenza, perché l’ufo non sia passato invano. Un progetto che ha costi significativi (si parla di 50 milioni di euro), ma che può essere promosso dal mondo universitario italiano (e internazionale), con la partecipazione degli enti locali più sensibili, con un impegno di tutti coloro che credono che la formazione sia decisiva per far ripartire una comunità così devastata. Perché è del tutto evidente che l’Aquila per tornare a vivere ha bisogno che riparta la sua vita sociale e produttiva. E in questo senso si deve partire da chi ha più energie da mettere in campo e cercare di gestire il progetto nel modo più trasparente possibile. Lavoreremo a questa proposta: abbiamo preso contatto con i giovani ricercatori e con chi nel Pd si sta chiedendo cosa si può fare di concreto. Insieme a questo non trascureremo nemmeno per un secondo l’insegnamento più prezioso di questi ultimi mesi, a cui proprio Fina ci ha tutti richiamati: l’importanza della rete di relazioni, della partecipazione che si sviluppa in una dimensione orizzontale ed è basata su un’informazione libera (un Bersani inedito parlava ieri addirittura di controinformazione) e puntuale (come nel lavoro de ilcapoluogo.it, un sito che non perderemo di vista). L’Aquila, del resto, ci fa capire l’Italia. E ci aiuta a capire un po’ anche noi. Accendiamo la realtà. Ne abbiamo bisogno.
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