Sarà per il tema del contesto su cui a lungo si sofferma, sarà per la ricostruzione lucida e la pagina pulita, e forse, soprattutto, per l’abbrivio straordinario, ma ne La notte che Pinelli, l’ultimo di Adriano Sofri, il libro che non avrebbe potuto non scrivere, pare di scorgere una storia semplice di quelle che piacevano a Sciascia. Sofri si rivolge ad una ragazza di vent’anni (di quella generazione che di piazza Fontana non sa letteralmente nulla) e le racconta del tempo in cui lui aveva la sua età, "la mia vita all’età che tu hai ora", come vogliono i versi di Calvino e di quella canzone che Sofri richiama. Oltre il ponte, si chiamava. E, oltre il ponte di un ricordo di quarant’anni e della storia drammatica che ne è seguita per tutti i protagonisti e per il Paese, un uomo vola dalla finestra della questura di Milano. Un fatto (e un tuffo, come incredibilmente lo chiamò Allegra), collegato alla strage di piazza Fontana, che finì per amplificare ulteriormente quell’esplosione, e che cambiò il corso delle cose e degli anni a venire, in modo irreparabile. Sofri non fa sconti, né alla storia, né alla logica, né quindi alle responsabilità, quelle penali e quelle morali (e, però, distinguendo tra queste e quelle), affrontando il tema del contesto in un duplice confronto reciproco con Norberto Bobbio, a proposito del famoso j’accuse contro Calabresi e i "magistrati persecutori" e i "giudici indegni" che tante personalità firmarono e che oggi sembra così sorprendente. Sofri, si dirà, torna su cose già sostenute e chi pensa che l’autore smentisca se stesso, ha letto i – pessimi – giornali di questi giorni, non certo il libro. E, se Sofri vi ritorna, la volontà non è tanto quella di precisarle, quanto di approfondirle. All’insegna di una "cura delle parole" che mancò, di quelle parole che produssero in larga misura ciò che accadde allora, in entrambi i campi dello scontro, sia che fossero bugie (anche nella variante omissiva, tanto frequentata), deviazioni, appelli, condanne. Il protagonista del libro, va detto, non è Calabresi, né Sofri, ma Pinelli. E, insieme a lui, quello che accadde quella notte, e i giorni che l’avevano preceduta, e le parole che la raccontarono, soprattutto. E il ‘contenuto’ sta tutto nelle parole (ancora loro) con cui si apre, che sono, appunto, di Pinelli: "Nulla posso dire in merito all’accaduto". Una frase che vale per tutti, per il Sofri di ora e quello di allora, per la polizia, per la magistratura e per chi ha voluto essere omertoso e complice di quello che successe quella notte, e nelle tante che seguirono in quella più lunga che, non è un caso, si chiamò così: la notte che la repubblica.

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