"La regressione all’ambiguità evita la contraddizione e implica una carenza di tutti i processi discriminatori. Nella persona con forti tratti ambigui possono alternarsi sulla scena della coscienza aspetti di sé incompatibili, senza generare nel soggetto né conflitto, né confusione. Il dubbio, la confusione, l’incertezza sono invece lo scomodo privilegio dell’interlocutore". E’ questa, per me, la ‘frase’ del libro L’ambiguità che Simona Argentieri ha pubblicato per i tipi di Einaudi. Un libro straordinariamente attuale e carico di senso presente. Le ambiguità e la malafede, ‘peccati’ a volte apparentemente veniali, si muovono tra conscio ed inconscio, consentono al soggetto di salvarsi dal sostenere le proprie responsabilità. All’osservatore esterno non resta che assistere con profondo disagio a questa evidente contraddizione tra il dire e il fare: in effetti, l’ambiguo "tende a difendere se stesso, a riproporsi e a perpetuarsi; resiste con forti quote di aggressive a ogni tentativo di smascherarlo, poiché è […] l’uscita dall’ambiguità provoca ansia, confusione, colpa e disagio". Vale per l’evasore fiscale, per il politico incoerente, per il fidanzato fedifrago o indeciso. Hay gente que no sabe lo que quiere, diceva un mio amico spagnolo che studiava filosofia teoretica e ne aveva viste parecchie. C’è gente che non sa quello che vuole: c’è gente che lo sa, invece, ma – consciamente o incosciamente – finge di non saperlo. "Il nostro mestiere è la verità", sosteneva Freud, che Argentieri corregge immediatamente ricorrendo al Roger Money-Kyrle dell’exergo del libro: "Nasciamo con un amore innato per la verità, ma siamo pronti a liberarcene non appena ci sia di impaccio". Particolarmente vero, soprattutto in questo nostro tempo devastato e vile.

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