Dopo l’allucinante dibattito in Senato (di cui abbiamo una diapositiva), è salutare e necessaria (di più: obbligatoria) la lettura del libro di Vittoria Foa e Federica Montevecchi, Le parole della politica, appena uscito per i tipi di Einaudi. E’ un saggio a quattro mani molto breve, che contiene in sé alcune linee fondamentali per quel progetto che ormai pressoché tutti sostengono di riforma dei modi della politica. Si parla, nel libro, del linguaggio vuoto della politica italiana e del suo «presentismo», da quella prospettiva che si limita al momento, perché non sa ‘parlare’ del futuro, perché non ha nessuna esigenza di trasferire alcun messaggio, ma che è parola circolare (chiacchiera). Si parla di ipocrisia e di vacuità, in cui i discorsi sono «irrilevanti» perché non si ha alcuna attenzione per l’interlocutore. E’ una parola che ha perso il suo tratto fondamentale: quello di apertura di senso e di ricerca. La parola è immediatamente plurale, il suo significato si struttura nel corso del tempo con il contributo di molti. Oggi non è più così. La parola deve tornare ad essere aperta e plurale, dunque, come in un dialogo platonico. Come in quel Gorgia su cui Montevecchi si sofferma con straordinaria chiarezza, illustrando le potenzialità creative che sottendono al linguaggio della politica, anche a quella politica di mestiere (di cui parlavo ieri prima di leggere il libro) che può essere oggetto di una profonda trasformazione e tornare ad essere utile alla comunità. In attesa che Socrate apra un blog, vale la pena di spendere otto euro per il libro di Montevecchi e Foa (quest’ultimo ha novantotto anni, ma è più giovane di me).
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